Il testo ancora inedito in Italia ha debuttato ad Atene nel 2016 e pochi mesi dopo al Royal Court
Theatre di Londra e nasce da una premessa e dall’urgenza di rispondere a una domanda: il grande
flusso migratorio che obbliga milioni di esseri umani a lasciare il proprio Paese in crisi - solo nel
2015 circa 800.000 rifugiati sono arrivati nelle isole greche – muove persone e insieme cose. Cose
che devono necessariamente entrare in una valigia, portate via in fretta o scelte - nella migliore
delle ipotesi - con cura, nella speranza di sopravvivere o tornare, ricostruire una nuova vita in un
Paese che non è il proprio, oppure portate con sé unicamente per lo stretto necessario. Fotografie,
oggetti minuti, chiavi di casa…Cose che acquistano un significato ben più profondo del loro
effettivo valore.
Scrive Andreas Flourakis : “Poco prima che questo spettacolo fosse commissionato dal Royal Court
Theatre, ero andato a visitare Lesbo, un'isola molto vicina alle coste della Turchia, attraverso la
quale passa la maggior parte degli immigrati, soprattutto siriani, diretti in Europa e in Occidente.
Mi sono recato in diversi luoghi legati agli immigrati e al Centro di Accoglienza e Identificazione
(RIC), nel tentativo di comprendere questa situazione di recente sviluppo. In una discarica ho
trovato valigie, aperte e buttate, che appartenevano a immigrati derubati, e tutt'intorno
giacevano vestiti di bambini, fotografie di antenati e vari oggetti personali che, anche se
apprezzati dagli immigrati, erano considerati solo spazzatura dai ladri”.
Qual è il valore e l'importanza delle cose? Qual è il valore e l'importanza delle cose nelle diverse
culture? Che significato hanno le stesse cose per persone diverse? Quale logica spinge le persone a
portare con sé determinate cose e a lasciarsi alle spalle tutto il resto?
Durante la preparazione del testo, Flourakis affida ad un piccolo campione di cittadini greci, tra cui
sua figlia di 10 anni, un esperimento, chiedendo loro di scegliere le cose che porterebbero con sé
qualora fossero costretti a lasciare improvvisamente il paese. Il materiale drammaturgico nato da
questa performance confluisce in parte nel Testo aprendo ad una riflessione più ampia: non si
tratta semplicemente di spostare la prospettiva (gli altri potremmo essere noi) ma di sentire al di
là di qualsiasi retorica quanto lacerante e drammatica sia la situazione di profugo. Il generico e
l’impersonale si fanno storia coniugata in prima persona: dentro ogni valigia, dentro ogni cosa
portata con se, non c’è un’umanità indistinta e senza nome, c’è la singolarità di un individuo, la sua
biografia. Lo stesso Flourakis confessa di essersi trovato più volte a pensare di dover lasciare la
Grecia, attraversata come è noto da molteplici ondate di crisi economiche e sociali.
Un testo poetico, profondo, a tratti surreale e con punte di leggerezza, che Flourakis
affida ad una polifonia di Voci: coro moderno di uomini e donne che come nell’antica tragedia
rappresentano quella comunità in cui potersi rispecchiare per comprendere meglio il presente.
Si tratta del secondo testo che MetisTeatro, che da alcuni anni affianca allo studio dei classici la
ricerca sulla drammaturgia contemporanea, porta in scena di Andreas Flourakis. Già nel 2018
Metis aveva messo in scena “Voglio un paese” nella traduzione di Gilda Tentorio (testo vincitore
del concorso Eurodrama).
Quando si deve lasciare
improvvisamente il proprio paese -
e forse anche per sempre - che
cosa si porta con sé? Una
fotografia, una giacca, un
fischietto?
Andreas Flourakis